1944 l’estate di sangue a Venezia

estete di sangue 1944

 

 

 

 

 

28 luglio

Commemorazione ufficiale dei Tredici Martiri di Ca’Giustinian

ore 17.30 in calle 13 Martiri (san Moisè, a finaco dell’Hotel Bauer).

3 agosto

Commemorazione ufficiale dei Sette Martiri

ore 18.15 concentramento in via Garibaldi presso la sede dell’ANPI 7 Martiri

ore 18.30 partenza del corteo per i monumenti alla Partigiana e Riva dei Sette Martiri;

ore 19.00 commemorazione ufficiale c/o la lapide dei Martiri.

Saranno presenti il vicepresidente dell’ANPI provinciale di Trento, Mario Cossali, il presidente dell’ANPI provinciale di Venezia, Diego Collovini, e Annamaria Gelmi, nipote dei fratelli Alfredo e Luciano Gelmi.

Un ringraziamento particolarmente sentito al maestro vetraio Massimo Costantini e al compagno Gianni Foffano per aver eseguito a titolo gratuito le nuove splendide fiammelle votive del monumento dei Sette Martiri.

Un ringraziamento altrettanto sentito infine a Stefano Ghesini per la cura grafica delle Commemorazioni ufficiali.

Che cosa accadde in quei giorni

7 – 8 luglio

 

I funerali dei sei caduti fascisti – tre uccisi da commando gappisti in città tra la notte del 5 luglio e la mattina del 6 luglio 19444, e tre marò morti in uno scontro a fuoco con i partigiani in terraferma – si svolsero in forma solenne nella Basilica dei santi Giovanni e Paolo la mattina del 9 luglio. Ma i fascisti veneziani non avevano aspettato di seppellire i loro morti che già avevanocompiuto una sanguinosa rappresaglia di tipo squadristico, con una spedizione punitiva nella notte dell’8 luglio per le calli e i campielli di Cannaregio, sestiere popolare e antifascista, dove era stato compiuto l’attentato che più a essi bruciava (l’uccisione del maresciallo di Marina Bartolomeo Asara, al quale sarebbe stata intestata una Brigata nera).Dieci furono i nomi di antifascisti indicati, il pomeriggio del 6 luglio, in una riunione presieduta dal comandante provinciale della Guardia nazionale repubblicana (Gnr), colonnello Salvatore Morelli, e assegnati a varie squadre, lungo un tracciato che aveva come dorsale Strada Nova, oggi chiamato “il percorso della memoria”,  identico il rituale: un invito a seguire i fascisti in Questura, pochi passi, un colpo di pistola alla nuca, il cadavere lasciato a terra per due giorni, a monito corale… Ai campanelli di quattro case i sicari suonarono invano. In altre sei si aprì loro la porta. Caddero così Bruno Crovato, 41 anni, meccanico, in campo San Canciano; Luigi Borgato, 37 anni, cal- zolaio, al ponte dei Sartori; Ubaldo Belli, 50 anni, maestro elementare, in fondamenta di san Felice; Augusto Picutti, 26 anni, cameriere, in campiello del Magazen, a San Leonardo; Pietro Favretti, 60 anni, capostazione, in calle Colombina a San Marcuola. Singolare fu la vicenda di Giuseppe Tramontin, 41 anni, meccanico motorista, colpito in calle Priuli a Santa Sofia: il proiettile gli sfiorò il cervello, ed egli riuscì a ritornare a casa, e quindi fu portato in ospedale, dove medici e infermieri riuscirono a sottrarlo alle ricerche dei fascisti; guarito, fu nascosto in una casa amica e si fece spargere la voce che era morto. Sui masegni aveva scritto con il dito bagnato nel sangue la parola Cafiero… Ernani Cafiero, milite della Gnr, fu uno dei primi fascisti processati dalla Corte straordinaria d’assise, poche settimane dopo la Liberazione: ritenuto responsabile della spedizione punitiva come pure dell’eccidio di Ca’ Giustinian, fu fucilato al Lido all’alba del 12 luglio 1945 assieme al capitano della Gnr Waifro Zani e a Umberto Pepi, capo dell’Ufficio politico e ufficiale delle Brigate nere; per l’eccidio di Cannaregio la Corte condannò a morte anche il tenente colonnel- lo della Gnr Edoardo Bassi, e il colonnello Morelli (il vero regista della repressione a Venezia) e a pene varie una dozzina di ufficiali e di militi: ma per loro arrivarono commutazioni di pena in appello, indulti e infine l’amnistia. Fino alla morte, nel 1979, Giuseppe Tramontin, “il morto che cammina”, fu il portabandiera dell’Anpi veneziana.

 

 

28 luglio

Erano le 9.05 del 26 luglio 1944, quando il boato di una violenta esplosione scosse Venezia: una potente carica di dinamite aveva fatto crollare tutta l’ala posteriore di Ca’ Giustinian, sede del Comando della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) e dell’Ufficio politico, la polizia segreta, sede dei più spietati capi fascisti. L’esplosivo – una cassa pesante un’ottantina di chili – era stato portato poco prima nel locale del corpo di guardia da un commando di partigiani, alcuni dei quali travestiti da soldati tedeschi. Ci furono diciassette morti: sei militi della Gnr, cinque ausiliarie, quattro impiegati civili, due soldati tedeschi e una trentina di feriti. La rappresaglia fu immediata, invano mascherata in termini formali dall’annuncio di una riunione del Tribunale straordinario di guerra. In realtà, non ci furono né processi né tribunali, ma soltanto una macabra farsa di giudizio, un vertice di ufficiali della Gnr: così, la notte del 27 luglio, tredici detenuti politici, partigiani e gappisti, furono prelevati a Santa Maria Maggiore. Alle cinque del mattino del 28 luglio, furono portati in due gruppi sulle macerie di Ca’ Giustinian e falciati a raffi- che di mitra. Erano: Attilio Basso, 22 anni, fattorino di banca; Stefano Bertazzolo, 25 anni, impie- gato; Francesco Biancotto, 18 anni, falegname; Ernesto D’Andrea, 31 anni, operaio a Marghera; Giovanni Felisati, 35 anni, operaio a Marghera; Angelo Gressani, 48 anni, orologiaio; Enzo Gusso, 31 anni, impiegato; Gustavo Levorin, 39 anni, tipografo; Violante Momesso, 21 anni, contadino; Venceslao Nardean, 20 anni, falegname; Amedeo Peruch, 19 anni, contadino; Giovanni Tamai, 20 anni, meccanico; Giovanni Tronco, 39 anni, fabbro. Erano quasi tutti di San Donà di Piave, eccettuati Felisati, di Carpenedo, e Levorin, di Padova, segretario provinciale del Pci veneziano; quasi tutti erano comunisti, e alcuni cattolici praticanti, tra cui Gusso, del Partito d’azione, ed erano stati arrestati a gennaio. A guerra conclusa, vari ufficiali e militi della Gnr furono chiamati a rispondere dell’eccidio davanti alla Corte straordinaria d’Assise. Tre di essi, il comandante provinciale, colonnello Salvatore Mo- relli, il capitano Waifro Zani, il milite Ernani Cafiero (riconosciuti responsabili anche dei cinque omicidi di antifascisti a Cannaregio nella notte dell’8 luglio ’44) furono condannati a morte, altri otto all’ergastolo. Zani e Cafiero furono fucilati al Lido all’alba del 12 luglio 1945, assieme a Um- berto Pepi. Per Morelli, contumace, sopraggiunse poi l’amnistia, che cancellò anche le condanne a tutti gli altri.

3 agosto

Si fece festa grande, con abbondanti bevute, la notte sul 2 agosto 1944, sulle navi della Ma- rina germanica attraccate alla Riva dell’Impero. Ma quando ci si accorse della sparizione di una sentinella di motovedetta, il Comando germanico non esitò a decidere la rappresaglia, che si abbatté su sette detenuti politici a Santa Maria Maggiore. Essi erano: Aliprando Armellini, 24 anni, di Vercelli, partigiano combattente; Gino Conti, 46 anni, animatore della Resistenza nel Cavarzerano; Bruno De Gasperi, 20 anni, di Trento; i fratelli Alfredo Gelmi, 20 anni, e Luciano Gelmi, 19 anni, di Trento (i tre giovani trentini erano renitenti alla leva di Salò); Girolamo Guasto, 25 anni, di Agrigento; Alfredo Vivian, 36 anni, veneziano, operaio alla Breda, comandante militare partigiano nella zona del Piave, l’unico dei sette già condannato a morte per l’uccisione di un marinaio tedesco a Piazzale Roma il 13 dicembre 1943, e l’unico a essere indicato dal Comando tedesco, mentre gli altri sei furono segnalati dalla Questura e dal Comando della Guardia nazionale repubblicana. L’esecuzione volle essere anche una plateale “lezione” per gli abitanti di Via Garibaldi, da sempre zona antifascista. All’alba del 3 agosto pattuglie tedesche perquisirono le case, rastrellando oltre 500 persone – uomini e donne – che furono allineate lungo la Via, mani in alto e faccia al muro, e così rimasero per due ore, prima di essere costrette ad assistere alla fucilazione, dopo la quale 136 uomini furono condotti in carcere come ostaggi. Alle sei del mattino, i Sette Martiri, come subito li chiamò la voce di popolo, furono disposti in fila, legati tra loro con le braccia distese, schiena alla laguna, tra due pali eretti sulla Riva. Un ufficiale tedesco lesse ad alta voce la sentenza e ordinò il fuoco al plotone di 24 soldati, davanti alla folla atterrita. Il cappellano del carcere, don Marcello Dell’Andrea, che aveva accompagnato in motoscafo i condannati, confessandoli e comunicandoli (soltanto Vivian si disse “non professante”), tenne alto il Crocefisso; un attimo prima della scarica dei fucili, Vivian gridò “Viva l’Italia libera” e un altro condannato implorò “Vendicateci”. Con scope e secchi d’acqua, alcuni bambini furono costretti dai tedeschi a ripulire la Riva dalle chiazze di sangue. Pochi giorni dopo, le acque della laguna restituirono il corpo della sentinella tedesca. Non aveva ferite: il marinaio era caduto in acqua ubriaco ed era annegato. Era stata rappresaglia di guerra, e a conflitto concluso non ci fu processo. Soltanto tre giovani donne, alla cui delazione si doveva la cattura di tre dei Martiri furono condannate nel 1947 a otto anni di carcere, pena meramente simbolica per la sopravvenuta amnistia, che rese vano anche il processo contro il brigatista nero che aveva arrestato Conti.

[Testi di Leopoldo Pietragnoli]

 

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