Le orazioni per i Tredici Martiri di Ca’ Giustinian – 28 luglio 2024

L’intervento della Presidente dell’ANPI “Sette Martiri”, Enrica Berti alla commemorazione ufficiale nel Portego di Ca’ Giustinian per l’80° dell’Eccidio dei Tredici Martiri

Buongiorno a tutte e a tutti e grazie di essere qui.

Il 25 luglio, per noi antifascisti giorno famoso, ho ricevuto una cortese lettera da parte del Sindaco Luigi Brugnaro che mi ringraziava dell’invito a partecipare alla commemorazione di oggi, ma che si trovava costretto a declinare l’invito, essendosi però assicurato che la corona d’alloro a nome della Città di Venezia per ricordare l’eccidio di tredici vittime barbaramente uccise per rappresaglia dai nazifascisti il 28 luglio 1944, fosse posta.

Certo, fu una rappresaglia. Una rappresaglia temuta fin da quando i carcerati a Santa Maria Maggiore ebbero notizia della bomba fatta esplodere dai partigiani qui, il 26 mattina. Ce lo lasciò scritto il partigiano Sandrinelli (al secolo Giuseppe Gaddi) sul prezioso libro “1943-1945 VENEZIA NELLA RESISTENZA”. E nell’attesa di conoscere la sorte che li attendeva, ognuno raccontava la propria vita, gli affetti che l’avevano confortata, i sogni che non si sarebbero avverati per loro, ma per cui avevano lottato con tanta fede, guidati da un ideale di libertà, giustizia sociale e rispetto tra i popoli, per un ideale di PACE, perché la guerra è disumana. Al primo piano (racconta sempre il Sandrinelli) un giovane che non poteva dialogare perché era stato isolato cantava alla finestra canzoni libertarie: era Francesco Biancotto.

Poi, poco prima di mezzanotte, un tintinnio di chiavi. Alcune celle si aprirono e Giovanni Felisati davanti alla cella di Sandrinelli disse con voce triste: “Adio, compagno, gavemo perso la vita. I ne copa, i ne copa in tredese. Tuti quei del grupo de San Donà. Te racomando mia muger …”. Poi Levorin: “Muoio tranquillo… ho fatto il mio dovere…”. Peruch risucì a borbottare solo “…mia muger”. Biancotto cantava Bandiera Rossa sottovoce.

Fu rappresaglia, sì, ma fascista, non nazifascista. Questa era la sede provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana e la notte del 27 luglio, il colonnello Morelli e il capitano della GNR Zani decisero chi sarebbero stati i 13 detenuti politici condannati alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena da un plotone di repubblichini. Lo ribadisco perché è giusto offrire le informazioni storiche corrette, laddove sia possibile sulla base di documentazioni certe. E lasciare il dubbio, laddove non sia possibile appurare la verità, laddove non ci sia certezza.

Una cosa, invece, è certa. Tutte e tutti coloro che combatterono il fascismo e l’alleato nazista si assunsero la responsabilità della loro SCELTA fino alla morte. L’attenta lettura, non mi stancherò mai di ripeterlo, delle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza” ci offre uno spaccato umano di dignità, di forza e di consapevolezza che rasenta l’eroicità. I Tredici Martiri e tutte e tutti coloro che lasciarono la vita per un ideale di società giusta, oggi più che mai ai nostri occhi sono eroine ed eroi, oggi più che mai perché ci troviamo talmente immersi nell’etere che a volte si perde la realtà del momento, il piacere del presente e la capacità di indignazione e ribellione. Poi, eventi bellici umanamente inammissibili, ci riportano alla realtà e allora le piazze si riempiono perché riemerge con forza l’umanità che c’è in ogni persona.

Davvero furono eroi ed eroine i combattenti per la libertà? Nelle interviste che si possono vedere sul sito dell’Anpi Nazionale “noipartigiani.it” – il memoriale della resistenza italiana, più di 500 combattenti raccontano la LORO SCELTA con semplicità spiazzante, considerandosi anzi degli anti-eroi. Perchè fu una scelta semplicemente umana. Umanità che oggi dobbiamo tenere sempre viva, non solo nei grandi eventi. Umanità che dobbiamo rivitalizzare, perché il sacrificio di tanti nostri nonni, tra cui i tredici martiri che oggi ricordiamo con sincero affetto, non deve essere stato vano. Quindi ciascuno di noi, nel proprio quotidiano, deve farsi promotore di umanità, di dignità avendo come guida la frase di Teresa Noce “Imparare a dire di No!” in tutte le occasioni, grandi e piccole, al lavoro e passeggiando per strada, in cui abbiamo consapevolezza del perpetrarsi di un’azione disonesta, di un illecito: non voltiamoci dall’altra parte, non fingiamo di non avere visto. Furono questi i motori che spinsero tanti uomini e donne a combattere con ogni mezzo (purtroppo anche armi vere, loro malgrado) i soprusi della dittatura fascista.

Se oggi vogliamo davvero rendere omaggio sincero ai nostri Martiri che in tutta Italia sparsero il loro sangue dando vita alla Costituzione antifascista, dobbiamo continuare a difenderne i principi fondamentali. L’Anpi ha già dimostrato di sorvegliare con attenzione contenuti e conseguenze di riforme costituzionali, senza farsi influenzare dal soggetto che le promuove. L’Anpi ha sempre lavorato puntando alla richiesta di attuazione della Costituzione e sorvegliandone l’evoluzione, prevista peraltro già dai costituenti, consapevoli che una società si trasforma. Evoluzione, però, non stravolgimento.

Perché come ribadì Piero Calamandrei “la libertà è come l’aria, ci si accorge di quanto vale, quando comincia a mancare”.

Non dimentichiamolo.

Grazie dell’attenzione


L’intervento di Nicola De Lorenzo Poz dell’ANPI “Sette Martiri” alla commemorazione ufficiale presso il Cimitero di San Donà per l’80° dell’Eccidio dei Tredici Martiri

Oggi ci troviamo a commemorare dei martiri di una guerra civile successa ottant’anni fa. Ormai la maggior parte dei partecipanti non esiste più, ma la memoria di quanto accaduto è ancora viva più che mai. Purtroppo di guerre ne è ancora pieno il mondo e la scelta che fecero le coraggiose persone che aderirono alla Resistenza è quanto mai attuale. Non era certamente la scelta più facile, era sicuramente la più pericolosa, ma ha portato alla libertà della quale godiamo ancora oggi. Ed allora mi sono chiesto cosa si provasse ad entrare nella Resistenza, a combattere, a dovere scappare. Combattere segna tutti e non è certo un’esperienza positiva.

Un libro molto bello che permette di capire quello stato d’animo è “Ci chiamavano banditi” nel quale Guido Petter, che salì in montagna a 17 anni, racconta la sua esperienza, con tutte le sue insicurezze.

Vorrei leggerne un passo a proposito dell’impiccagione di una spia catturata dalla sua banda partigiana:

Ma già le grida si interrompono, perché la corda afferrata con forza da tre o quattro si è tesa, l’uomo è stato staccato da terra, sale ondeggiando verso il ramo. Lo guardo con un’angoscia profonda. Vedo che si porta le mani al collo, nel disperato tentativo di allargare il nodo. (…) Ho negli occhi, e l’avrò per sempre, il movimento di quelle gambe, convulso e via via più lento, e poi l’immobilità di un corpo che dondola piano nel vento. (…) Ho bisogno di scrivere, per liberarmi di quell’emozione violenta. Scrivo una lettera al Comando , con un resoconto di ciò che ho visto. Voglio esprimere la mia ribellione per il modo in cui è stata data la morte ad un uomo.” – Nel frattempo entra nella stanza il comandante di Guido “Gli leggo la parte della lettera già scritta. Non è stato lui a dirmi che i partigiani devono essere migliori degli avversari? È degna di loro la scena alla quale ho assistito? Lui segue anche questa lettura quindi si toglie gli occhiali: “Nemo – dice poi.- Hai visto un’esecuzione, ed è diverso dal veder morire in combattimento. Un’esecuzione è sempre una cosa orribile. (…) La cosa orribile è l’impossibilità di difendersi di chi subisce l’azione. È questo che ti ha colpito, credo.” “Ed allora perché la condanna a morte, perché l’ammettiamo?” “Noi viviamo dentro alla guerra, te l’ho già detto. Quando verrà la pace potremmo fare in modo diverso, non ora. Non possiamo tenerci con noi le spie, e neppure lasciarle andare. Le spie sono il nostro maggior pericolo, dai tedeschi ci si può difendere, la spia ti colpisce alla schiena, non la conosci.”

Da questo estratto emerge la brutalità estrema della guerra. Imbracciare le armi porta solo violenza, e seppur in quel momento fosse l’unica alternativa possibile, molti partigiani ne sono consapevoli. Le regole di guerra sono brutali ed ingiuste, ma non si poteva non seguirle. La Resistenza è stata, specialmente per chi l’ha combattuta un periodo triste, pieno di debolezze dubbi, paure ed incertezze. I partigiani non erano eroi, avevano solamente avuto il coraggio e l’intelligenza di ribellarsi ad una dittatura che aveva gettato in vent’anni di baratro oscuro l’Italia. La Resistenza è riuscita a sfornare donne e uomini consapevoli del valore della libertà, e che seguendo questo faro hanno fondato il nostro Stato. Quello che siamo ora lo dobbiamo a loro, ma anche a tutti coloro che non sono riusciti a dare il loro contributo, ma sono morti nell’idea di libertà ed hanno donato la loro vita per questa causa, come i tredici martiri di Ca Giustinian. Quando, casualmente o meno, mi trovo davanti ad una delle tante targhe che commemorano morti della resistenza mi fermo a riflettere, ognuno di loro deve rappresentare un lumicino che ci guida in tutti i nostri passi. Nel nostro agire quotidiano non dobbiamo mai dimenticare che, seppur difficile, spesso bisogna andare contro corrente, senza fare finta che tutto vada bene. Vorrei ricordare i racconti del partigiano Falce, morto nei primo giorni di quest’anno, che nel 1943, nonostante fosse vietato, portò del cibo agli IMI provenienti dai Balcani chiusi in un bastimento a Venezia, oppure quelli del partigiano Bianco che, nonostante avesse un lavoro come motorista, collaborava con la resistenza attivamente a rischio della sua vita, oppure dei partigiani Bocia e Venezia che quindicenni andarono a combattere in Jugoslavia. Credo che il modo migliore di onorare la libertà che ci hanno donato, pagando un prezzo altissimo, sia quello di difenderla, con le unghie e con i denti, e di fare non le scelte più comode e semplici, ma quelle più giuste, sempre, ogni giorno della nostra vita. Ormai i partigiani non ci sono quasi più, sempre più allora è il momento di farli camminare accanto a noi in ogni azione e di farli rivivere e conoscere alle nuove generazioni, affinché ora più che mai imparino a resistere anche loro.



 

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