77° Anniversario dell’Eccidio dei Sette Martiri

Come ogni anno, il 3 agosto, i veneziani ribadiscono la tradizione di una Città antifascista ricordando i Sette Martiri di Castello, quest’anno a causa delle restrizioni anti covid abbiamo dovuto rinunciare al tradizionale Percorso della Memoria e ogni celebrazione quindi si è svolta dal palco in Riva dei Sette Martiri presso la lapide in loro ricordo.
Di seguito riproponiamo il testo dell’orazione pronunciata dal Presidente di sezione.
IL PROGRAMMA :
18.00 | Palco Riva dei Sette Martiri
INTERVENTI COMMEMORATIVI
Sono intervenuti il Presidente della sezione ANPI “Sette Martiri” Gianluigi Placella e per il Comune di Venezia l’Assessore all’urbanistica Massimiliano De Martin.
A seguire: Presentazione del libro “I cerchi della memoria” di Maddalena Tiburzio.
A margine della cerimonia sono stati distribuiti:
RESISTENZA E FUTURO 2021 e a chiusura dell’iniziativa “Rotta Solidarietà in collaborazione ANPI “Sette Martiri” e Mediterranea il CATALOGO della Mostra Rotta solidarietà.

A settantasette anni anni di distanza anche la tragedia che commemoriamo oggi trova sempre meno testimoni diretti tra quanti furono costretti ad assistere alla fucilazione dei Sette Martiri.
Tocca a noi che ci siamo incaricati di raccogliere, conservare e trasmettere il ricordo di quei fatti, riproporre l’abominio della rappresaglia, trovare ogni anno le parole per dire grazie ai caduti e aggiornare il senso di quel sacrificio.

Nel momento del raccoglimento abbiamo ripassato i loro nomi, le loro provenienze: da Vercelli ad Agrigento, da Trento a Cavarzere, a Venezia; ribelli che, per vie diverse, si trovarono a partecipare ad azioni di lotta partigiana.

Vorrei soffermarmi qualche minuto in più sul perché si trovarono a morire.

Come tante altre vittime di rabbiose rappresaglie incivili in quella guerra che, di civile, per la parte nazifascista, non ebbe nulla, questi sette erano oppositori consapevoli della scelta di campo.
Nel semplice supporto, nell’organizzazione e militanza o nella ribellione all’arruolamento nelle truppe dei torturatori, furono attivi in una lotta che era sì una guerra patriottica, ma anche una guerra per il cambiamento sociale.

Questa prospettiva era alla base della determinazione e della convinzione politica dei tanti che con la stessa intenzione combattevano i restauratori fascisti e gli invasori tedeschi.
Su quelle finalità, trovo che la commemorazione di noi dell’Anpi debba soffermarsi a meditare, oggi più di ieri, perché spiega la strategia incalzante che vuole la Resistenza ignorata o accantonata o, ancora, resa insignificante; o anche colpevolizzata, demonizzata per essere “divisiva”; quando non addirittura spudoratamente omologata alle azioni di terrore e di rappresaglia della Guardia nazionale repubblicana e dei soldati nazisti.
Questo impegno di propaganda denigratoria e antistorica del momento fondativo dello Stato in cui viviamo, si spiega perché è quella carica di tensione ideale verso una società senza sperequazioni, quell’idea di società comprensiva, libertaria, equa, democratica che la restaurazione, in corso da tempo, sta avversando.

A maggior ragione dobbiamo ricordare quelle speranze e le conquiste successive, oggi, nella constatazione che il fascismo è intorno a noi, nei fatti si è re-insediato, ci assedia nuovamente.
Che sia accaduto per valutazione superficiale, per disimpegno o per una precisa strategia permissiva che finge di non riconoscerlo nelle forme del terzo millennio, non modifica l’impellenza di prenderne atto.
Perciò oltre all’impegno a proclamare la sua incompatibilità con la nostra democrazia, oltre a negarne il diritto di essere dove lo incontriamo ogni giorno (nelle violenze sui diversi, nelle ostentazioni di beneficenza, nelle demagogie che incoraggiano l’indisciplina per farsi invocare a mettere ordine), dobbiamo concentrarci sulle azioni che servano a togliergli lo spazio e che dimostrino il valore etico, politico e concreto dei principi della nostra Costituzione antifascista.

Un’ altra riflessione che mi sento di proporre riguarda l’appartenenza politica di alcuni di questi caduti. Come sul travisamento della Resistenza, la restaurazione, in questi anni, ha distorto anche il significato di un’altra parola: comunista.

È giusto ricordarlo perché se oggi possiamo rievocare, in libertà, le nefandezze del fascismo, tanto merito lo ebbero le formazioni inquadrate o organizzate dal Partito Comunista cui appartenevano anche alcuni tra i martiri che commemoriamo oggi.
Quello che, per il prezzo pagato in vite umane, fu definito da uno storico francese il partito dei fucilati.
È quindi doveroso che l’Anpi, pur nel suo pluralismo, lo richiami in ogni occasione, dato che il termine comunista viene proposto strumentalmente come sinonimo di disfattismo antiliberista, di arretratezza sociale ed economica, di barbarie, affinché quel termine susciti vergogna; a questo fine accomunandolo e sovrapponendolo capziosamente alle deviazioni totalitaristiche dei gulag e delle epurazioni per omettere e far dimenticare gli apporti dei comunisti, nella lotta di Liberazione e la forza propulsiva delle loro rappresentanze nei portentosi cambiamenti sociali avvenuti in Italia negli anni ‘70.
Una mistificazione cui ha corrisposto, in parallelo, lo sdoganamento del termine “fascismo” che circola come depurato da valenze indegne in quanto lo si riferisce a un sistema che, ci dicono, appartiene alla storia passata e che non esiste più.

Sentiamo anche doveroso denunciare che quella omologazione tra comunismo e nazifascismo è stata raccolta e rilanciata purtroppo dal parlamento europeo in cui le nostre rappresentanze non hanno saputo fare opposizione, appiattendosi colpevolmente su una deliberazione che rinnega la storia della sinistra italiana e dell’antifascismo europeo e italiano.

Questi sette martiri, anche da comunisti, erano convinti che il bene della comunità fosse superiore a quello dell’individuo singolo al punto da giustificare il sacrificio della vita. Un modo di sentire sempre più alieno nella nostra società occidentale sospinta alla frammentazione, all’individualismo, all’egoismo e perciò lontana da ogni sentire comunitario.
A loro dobbiamo ribadire il nostro grazie e al contempo però guardarci dai ringraziamenti stereotipati per la libertà e la democrazia che le loro lotte ci hanno consegnato; per non pronunciare parole di circostanza che diventano alibi quando i valori di quel lascito li vediamo dissolversi nella degenerazione della dittatura della maggioranza e nei fraintendimenti di libertà delle piazze no vax.

Anche il ricordo della ferocia dei metodi repressivi ha il suo perché in relazione alle preoccupazione sul presente: quella ferocia è facile da condannare come un eccesso irripetibile legato ad un sentire esecrabile appartenuto al passato; noi siamo comunque allarmati perché la ferocia è solo lo stadio ultimo di una costrizione progressiva del dissenso, della libertà di critica, della partecipazione delle minoranze al processo democratico. Senza riandare allo scempio della democrazia e delle persone del G8 di Genova 2001 che pure dobbiamo tenere presente come un monito, basta solo ripercorrere le immagini di certe piazze intolleranti e violente inneggianti ad una libertà fraintesa: sono segnali in cui la consuetudine con la democrazia, anche vicino a noi, sta per essere rimpiazzata con la consuetudine al pensiero unico, quello del dominatore, di fronte al quale i dissensi sono provocazioni da abbattere. La ferocia quindi è solo la risposta di grado più determinato nei confronti di una opposizione sempre più convinta e organizzata, in quanto, all’inizio, alla presa del potere basta anche solo l’intimidazione o l’esibirsi girando armati di pistola per ronde cittadine o ospedali.

E l’Anpi che cosa può prospettarsi in questo periodo in cui l’antifascismo è colpevolizzato e il fascismo nei suoi gesti simbolici e nelle sue aggressioni è tollerato?
Mentre si circondano e si transennano i manifestanti antifascisti e non quelli che resuscitano riti, parole d’ordine e violenze del fascismo? Quando un assessore alla cultura si fa vanto delle sue ascendenze fasciste mentre milita in un partito che ne ospita le discendenze? Contesti in cui si nomina ambasciatore della Repubblica antifascista un fascista dichiarato e violento? Tempi in cui il consenso crescente di cui gode un partito a forte radicamento fascista, erede del repubblichino MSI, basta a includerlo tra i possibili componenti di un governo di salvezza nazionale. Solo il calcolo elettoralistico di quel partito lo ha tenuto fuori da un governo, nel quale lo avrebbe pienamente depurato un giuramento “spergiuro” sulla Costituzione.
E se si diffonde la tendenza all’uniformità dell’informazione non si profilano gli unanimismi dei regimi illiberali?
Si svolgono processi gravissimi contro una mafia che contagia le istituzioni che pure sono trascurati dalla grande informazione a favore di cronache di criminalità quotidiana e poco si diffondono le denunce preoccupate di procuratori della repubblica e costituzionalisti sui pericoli insiti in riforme regressive e ingiuste.
Quanto sta accadendo in Ungheria, in Polonia, in Slovenia con la persecuzione del giornalismo indipendente e con la magistratura sottomessa al governo (sottometterla al volere del parlamento non cambierebbe di molto la sostanza dell’attacco alla loro autonomia), può accadere anche a noi.
E forse non manca molto, se ancora una volta, anche in questi giorni, la nostra Costituzione è sotto tiro e la nostra democrazia è a rischio. Sono scenari che devono allarmare come preliminari di una autocrazia dall’apparenza democratica. Tanto più se sfogliando gli articoli di una delle testate più padronali si legge che di fronte al persistere di critiche politiche all’interno del governo, “al Presidente della Repubblica non resterebbe che mettere su un governo elettorale, forse perfino militare, com’è accaduto con il generale Figliuolo per le vaccinazioni. A mali estremi, estremi rimedi”. L’insediamento di un governo militare lo si comincia a far passare come soluzione benefica e apportatrice di efficienza e ordine, come la cosa più naturale e auspicabile (Sorgi 29 luglio, La Stampa).

Le preoccupazioni espresse devono farci tornare al frutto della quella lotta di Liberazione, la nostra Costituzione, raccogliendo il significato umano della rivolta dei Partigiani, di quella disciplina di sacrificio e di giustizia, necessaria in ogni epoca, quando i valori di base della fratellanza umana vengono messi sotto attacco.
Ecco perché le esigenze di uguaglianza, di solidarietà, di giustizia devono farci essere presenti dove si agisce per ridurre le differenze sempre più dilatate in questo sistema economico che incoraggia il profitto ad ogni costo, perfino a scapito dell’ambiente che dovrebbe essere sentito invece come un bene comune e decisivo per la nostra sopravvivenza. Lo vediamo anche negli ambiti più vicini a noi, in una Venezia ridotta a “merce” dove ci si indirizza ancora una volta verso la concentrazione e la moltiplicazione dei privilegi. In una città in cui lo strapotere di capitali e capitalisti insofferenti alla partecipazione dei cittadini sa dove trovare corrispondenze, è doveroso tener presente che il capitale, quanto più è grande, meno vincoli pretende, tanto da godersi, come pochi altri, il privilegio di piena libertà nei regimi autocratici; e tra questi, il modello fascista resta sempre affidabile.

Impegniamoci perciò a ricordare a ogni uditorio, che la nostra Costituzione indirizza verso una società solidale, una società fatta di persone che, pur nella fretta di tutti i nostri giorni cui la superficialità consumistica e i disagi della precarietà le costringono, trovino giusto soffermarsi sulle condizione di chi sta in fondo; una società di persone per le persone e non di individualità sconnesse, incattivite, in costante competizione reciproca, col perenne rifiuto del diritto dell’altro: che l’occasione sia il vaccino, un reddito di sopravvivenza garantito, il diritto all’asilo, lo ius soli, il diritto al lavoro dignitoso e protetto dal caporalato che schiavizza le persone come accade anche nell’imprenditoria veneta più celebrata, il diritto ad un lavoro in sicurezza e che non lasci nella povertà, ad una sanità accessibile, efficiente e gratuita, alla parificazione tra i generi, al rispetto per ogni diversità; in una parola al rispetto per ogni espressione della specificità della persona umana. Ecco perché riteniamo che l’Anpi debba essere un esempio di solidarietà.
Soprattutto quando la solidarietà viene ostacolata e addirittura perseguita come un reato, in una Costituzione capovolta.

È quanto abbiamo fatto con Rotta Solidarietà, un progetto di straordinaria partecipazione che ha mobilitato le volontà più sane per sostenere le attività di chi salva i migranti in mare, come Mediterranea. A quanti hanno consentito, con la messa a disposizione delle loro opere, la realizzazione di questo progetto visionario, va il nostro sentito grazie.
È una rotta, quella della solidarietà, contro corrente, difficile perché costa sacrifici, più dura di quella che a destra compatta intorno al privilegio, al vantaggio individuale, ma è quella che può restituire identità, dignità e consenso ad una nuova lotta partigiana.

In questo cammino sul sentiero segnato dalla Costituzione è però, imprescindibile evitare le lotte separate, le rivendicazioni per gruppi, ritrovandoci tutti intorno alla parola d’ordine della dignità cui ogni umano ha diritto; senza distinzione di provenienza, di orientamento sessuale, religioso, richiamando la necessità di uno stato in questo senso interamente laico, perché solo la laicità garantisce il rispetto onnicomprensivo.
Una società perciò agli antipodi di quella che si profila all’orizzonte e si è già realizzata, vicino a noi, nel contesto orientale dell’Europa.

In questi tempi difficili, la memoria di protagonisti della Resistenza ci aiuta.
Carla Capponi, medaglia d’oro al valor militare che partecipò a numerose azioni dei GAP, compresa quella di via Rasella, ricordava che : «Quando il partito ci diede il nome GAP, qualcuno di noi chiese che “gruppi di azione patriottica” venisse cambiato in “gruppi di azione partigiana”. Era una forma di settarismo. Quel patriottica ci sembrava nazionalismo, volevamo una definizione più di classe, più rivoluzionaria. Però ci convincemmo: la nostra era una guerra di liberazione nazionale, e la combattevano tutti. Era una riaffermazione del vero patriottismo, dell’unita popolare».
Una citazione che ci richiama a tornare al sentire di gruppo, alle alleanze tra le forze sane del civismo, alle lotte unitarie di popolo, trasferendo così nella prassi il nostro antifascismo.
Che poi è il “loro” antifascismo, quello dei caduti che ricordiamo oggi: quella tensione e quella azione che le condanne a morte hanno interrotto troppo presto e che, col loro esempio, stiamo negli anni imparando e confermando.
In fondo, il nostro ritrovarci ogni anno, ha questo significato: verificare, al loro cospetto, se abbiamo imparato abbastanza, se abbiamo praticato secondo i loro intenti, il loro impegno, i loro proclami nel momento dell’addio alla vita

Gianluigi Placella, Presidente della Sezione ANPI “Sette Martiri”


L’evento su FB

Che cosa avvenne quel 3 agosto di 77 anni fa.


 

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